GIORNATA MONDIALE PER LA PREVENZIONE DEL SUICIDIO
Lunedì 10 Settembre 2018
Sala Anziani, Palazzo Moroni, Padova
Di tutto restano tre cose:
la certezza che stiamo sempre iniziando,
la certezza che abbiamo bisogno di continuare,
la certezza che saremo interrotti prima di finire.
Pertanto, dobbiamo fare:
dell’interruzione un nuovo cammino,
della caduta un passo di danza,
della paura una scala,
del sogno un ponte,
del bisogno un incontro.
Fernando Pessoa
SUICIDIO E MEDIA: INFORMARE CON SENSIBILITÀ, UMANITÀ E RESPONSABILITÀ
Deontologia e giornalismo
Relatore: Gianluca Amadori
L’intervento di Amadori si focalizza sul rapporto forma e contenuto nella stesura del testo giornalistico, sulle modalità in cui viene veicolata l’informazione giornalistica e sulle dirette implicazioni deontologiche nell’ambito di argomentazioni sensibili come il suicidio.
Il tema della sensibilità incontra l’atto giornalistico su due fronti: come funzione di cura, tutela e protezione dei sopravvissuti e come principio deontologico che traduce l’atto giornalistico nella sua funzione educativa nei confronti del pubblico, attribuendo alla stessa mediazione giornalistica statuto di qualità imprescindibile.
In questi termini A., in linea con il testo unico, ricorda come la mission dell’atto giornalistico risulti connessa all’interesse pubblico e insieme ai codici relativi alla privacy, al rispetto dell’onore e della dignità della persona coinvolta e alle dirette conseguenze di una pratica giornalistica fuorviata nei suoi principi deontologici. L’OMS ha riportato una correlazione positiva tra l’uscita di notizie sul suicidio e picchi di atti suicidari nei periodi successivi.
Il rischio di emulazione è la dimostrazione di un fenomeno che obbliga colui che scrive a rispettare i principi di essenzialità dell’informazione, di evitamento della spettacolarizzazione e di aspetti sensazionalistici.
In questi termini le scelte formali e di contenuto risultano funzionali non solo a livello cognitivo ma soprattutto svolgono una funzione significante a livello metacognitivo:
l’attenzione necessita di spostarsi dall’evento, nei termini di luogo, modalità e dettagli della morte, al fenomeno nella sua complessità.
Per garantire all’informazione un potenziale educativo, risulta necessario creare una prospettiva di senso, che non può prescindere dalle modalità in cui tale informazione viene pensata e veicolata.
L’aderenza ai principi deontologici agisce positivamente sul pubblico e si riflette sulla persona che scrive, diminuendo il rischio e aumentando la qualità del lavoro in termini di serietà e rigore.
Educazione alla morte
Relatrice: Ines Testoni
Che cosa cerchiamo di negare con la cultura occidentale?
In linea con il pensiero di Amadori, T. propone l’analisi di un aspetto essenziale del giornalismo professionistico: come mettere in relazione la funzione del gatekeeping e il terrore della morte, e tradurre tale relazione in un’informazione dotata di senso.
Nella prospettiva attuale l’informazione mediatica ha subito una trasformazione: la gestione dell’informazione che in passato si esplicava in gestione del potere, secondo un principio lineare e gerarchico, oggi viene gestita in termini di competenza nel miglioramento effettivo della vita collettiva.
La comunicazione odierna di tipo circolare, se da un lato permette ad ognuno la possibilità di rielaborare e creare informazione, dall’altro incontra il problema della disinformazione e dellecosì dette fake news.
In questi termini la funzione del gatekeeping diviene essenziale per far emergere il giornalismo professionistico come punto di riferimento, perché in grado di produrre esiti di rappresentazione sociale e miglioramento della qualità della vita della persona.
In ambito di suicidio il gatekeeping seleziona e qualifica un’informazione di tipo trasformativo, positivo e condiviso e una specifica formazione nei termini di educazione alla morte.
La ricerca scientifica ha dimostrato come la mortality salience sia strutturata non tanto intorno all’accadimento specifico, quanto sulla ricerca di significato rispetto al fenomeno nella sua complessità: la morte fa notizia perchè spaventa.
Sulle tracce del pensiero di Amadori, T. sostiene che per il giornalismo professionistico il salto qualitativo risieda nel passaggio tra cognizione, intesa come informazione, e meta-cognizione, ovvero consapevolezza e posizionamento del parlante rispetto all’oggetto.
In questo senso il ruolo del gatekeeper diviene essenziale per regolamentare l’informazione intorno ad argomenti sensibili come il suicidio. Tale ruolo implica la capacità di riconoscere coloro che sono in grado di parlare con competenza di questo argomento, stabilire le modalità in cui veicolare l’informazione e il timing.
Un altro aspetto inerente al ruolo del gatekeeper consiste nella valutazione dei rischi: quando si parla di morte non possiamo essere certi dell’esito dell’informazione data, motivo per cui una buona intenzione può non produrre l’effetto desiderato. In tal senso l’educazione alla morte permette di ridurre gli esiti negativi e raggiungere gli obiettivi metacognitivi prefissati.
Secondo la terror management theory tali esiti imprevedibili risultano connessi a dinamiche inconsce, di chi scrive, e a dinamiche consce, di chi legge. Nello specifico è stato dimostrato come il terrore della morte tenda a corrompere il linguaggio specialistico e quotidiano.
Tale corruzione involontaria del linguaggio interviene anche nel passaggio di informazioni all’interno di comunicazioni ottimali. Ad esempio è possibile cedere a dinamiche conflittuali intergruppi quando presentiamo situazioni critiche legate all’immigrazione, operando una differenza tra noi e loro; tale uso del linguaggio può veicolare a livello metacognitivo un messaggio di tipo discriminatorio. Questa tipologia di inter group biases possono essere introiettati a livello collettivo e legittimare norme condivise.
La corruzione del linguaggio è nuovamente riconducibile alla mortality salience, intesa come fattore attivante difese inconsce, in grado di corrompere l’informazione e di agire in termini strutturali nella formazione della personalità, del sé e a livello culturale.
In tale senso il ruolo del gatekeeper diviene fondamentale per gestire i contenuti significanti nel passaggio tra cognizione e meta-cognizione.
È proprio in tale passaggio che T. colloca la seconda ipotesi in virtù dell’immagine del giornalismo professionistico: il giornalista competente risulta in grado di far emergere, attraverso gli aspetti metacognitivi, una prospettiva di senso capace di contestualizzare l’informazione stessa e di costruire significato.
Dalla contrapposizione che nasce tra una tradizione religiosa e culturale e un opposto sapere scientifico possono emergere le indicazioni di senso in grado di innalzare l’informazione che viene data.
In conclusione, l’informazione, per divenire meta-informazione, necessita che colui che scrive sia competente nei death study e in suicidologia, e sappia collocarsi come persona in una prospettiva ad ampio orizzonte riguardo la complessità e il senso del suicidio e della narrazione di una biografia suicida, tenendo sempre a mente che sui grandi temi bisogna diventare grandi scrittori.
Presentazione del Riconoscimento ai Giornalisti “De Leo Fund Media Award”
De Leo Fund si sta spendendo per migliorare il benessere collettivo e prevenire potenziali situazioni di rischio. Tale progetto riconosce l’impegno delle persone che si occupano di tali argomentazioni sensibili con l’obiettivo di far maturare una scrittura competente e responsabile.
Etica della comunicazione
Relatore: Alessandro Pagnini
« Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n’è soltanto uno, che l’uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l’uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice. » Camus, Il mito di Sisifo
P. torna sul problema della competenza come tema di riflessione in relazione all’etica della comunicazione, nello specifico sul dualismo mente e corpo che attraversa le modalità di parlare oggi della psiche.
In linea con il pensiero di Testoni l’approccio etico necessita di iscriversi non solo nei confronti dell’oggetto ma anche come consapevolezza e posizionamento della persona che scrive.
Dal secondo dopoguerra la filosofia morale ha attraversato due fasi: dalla meta etica, intesa come analisi dei giudizi morali, ovvero cosa intendiamo con il concetto di bene, come conosciamo le verità morali, all’etica normativa, nei termini di agire moralmente corretto.
Negli anni ’90 sorgono i primi problemi di etica pratica o applicata, in relazione ad esempio ai casi di fine vita.
Lo scollamento tra teoria e pratica viene risolto nel ritorno alla meta etica: ad esempio le nuove conoscenze scientifiche hanno comportato lo sviluppo della neuro etica, in relazione a problematiche che riguardano intuizioni morali, natura del ragionamento morale, definizioni di altruismo, fiducia, cooperazione tra individui.
Tuttavia le “scienze del cervello” non esaudiscono la sintesi, assai complessa, degli aspetti naturali e biologici e di quelli psichici, motivo per cui il piano del discorso viene nuovamente riportato a livello filosofico.
Il mito di Sisifo di Camus introduce un serio problema filosofico: il suicidio. Se la vita non è degna di essere vissuta, la domanda da porsi è di tipo costruttivo: quali aspetti della vita la rendono degna di essere vissuta.
San Tommaso affronta la tematica affiancandola a temi aristotelici e agostiniani, che mettono in luce l’incompatibilità del suicidio con il dovere di amare se stessi, attraverso i principi di un’etica eteronoma.
Kant introduce sul piano del discorso i concetti di autonomia e di autodeterminazione, dove il personalismo critico diviene l’alternativa più forte al relativismo etico.
In tale realtà ontologica e giuridica di un Io ideale dove la persona si libera dall’Io empirico condizionato dalla natura e dalla società, il concetto di rispetto emerge come tema centrale.
Il rispetto viene inteso come sentimento senza il quale la vita morale non esisterebbe e la moralità, intesa come legge di libertà, diviene il movente non conseguente alla Legge.
Il rispetto nasce dalla coscienza morale come reazione emotiva a una consapevolezza, a una regola suprema a priori dell’essere umano di restare libero: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.
La legge morale interna alla persona appare come principio formale ma, in realtà, segnala come ogni essere umano debba rispetto alle persone in quanto tali: ogni uomo pretende rispetto dai propri simili ed è obbligato al rispetto degli altri, in questi termini l’umanità è dignità.
Tale percorso soggettivo rintraccia nel soggetto stesso un valore superiore alle coazioni istintuali o indotte, rivelando un rapporto con un potere superiore, intimamente legato al rapporto che ogni agente libero ha con se stesso e gli altri. In questi termini l’amore di sé di cui parla San Tommaso risulta essere l’alternativa suicidaria, inteso come dovere di conservazione di sé assoluto ed incondizionato.
Sulla base dell’imperativo categorico, il suicidio resta un fatto mostruoso che impone all’uomo di chiedersi la natura di tale contraddizione.
Se non si può avere rispetto per gli altri avendo perso quello per se stessi, se dopo la morte di Dio la Legge non comanda più, come esprime magistralmente Dostoevskiy in Delitto e Castigo, torna nuovamente la domanda di Camus: perché non ti uccidi?
Seguendo l’etica kantiana la risposta risiede nell’imperat di un dovere morale che si impone al diritto, ovvero l’amore di sé come superamento dell’amor proprio, come sentimento che genera un affetto corrispondente. Il rispetto diviene principio fondamentale perché riconosciuto come criterio in base al quale tutti i doveri e tutte le regole possono essere comprese e spiegate: ad esempio la regola di dire la verità ha senso perché espressione di rispetto.
In questi termini ci si deve chiedere in che modo il rispetto dia senso alle regole morali e, pur non essendo una regola morale, si collochi all’opposto della violenza e della strumentalizzazione.
Nella filosofia post moderna la domanda di Camus incontra un nuovo punto di vista: l’ironia. Richard Rorty ricorda come la verità possa essere asserita con ironia, intesa non solo come figura di abbellimento ma soprattutto come strumento di educazione e di conoscenza. Thomas Nagel, attraverso la posizione illuministica dell’irrilevanza cosmica della singola vita, sostiene che se tutto non ha importanza, allora anche l’assurdità della vita camussiana non ha ragione di tramutare in angoscia: è possibile trattare la vita con ironia, perdonare e incontrare la speranza. La passione socratica per la conoscenza fa della speranza un incontro e un farmaco.
David Foster Wallace definì, in un suo brano, il suicidio di un ragazzo che si gettò dal ponte di una nave come un capitombolo: ciò che conta e che necessita una riflessione, è il tema del desiderio di morire per non prendere consapevolezza della morte.
Media e suicidio: una prospettiva internazionale
Relatore: Diego De Leo
Da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il suicidio viene riportato come causa di morte frequente nelle giovani ragazze, tra i 15 e i 19 anni, nei paesi a reddito medio-basso. Tale dato ci pone di fronte al fatto che ogni persona può avere un ruolo nella prevenzione e nell’aiuto di persone a rischio: porgere la parola giusto al momento giusto.
Il suicidio si configura come il risultato di una convergenza di fattori di rischio, fra i quali emerge primariamente la depressione.
In Giappone tali fattori vengono definiti come eventi di vita, legati al sentimento della vergogna e alla dignità.
Il tema su cui è necessario riflettere non riguardo soltanto il fenomeno in sé ma anche e soprattutto le ricadute che tale fenomeno produce, con un effetto a catena, su coloro che restano al mondo.
Non solo ogni suicidio è associato a 25 tentativi di suicidio ma soprattutto il numero di suicidi in un anno coinvolge all’incirca 800.000 persone, che vengono modificate emotivamente dall’evento suicidario su più livelli: lo stigma, il problema dell’ereditarietà e della diversità, il contagio psicologico. La perdita di una persona cara lascia degli interrogativi che spesso si tramutano in sensi di colpa e rischiano di contaminare la vita delle persone coinvolte. Dopo aver mostrato una serie di testate giornalistiche in cui vengono riportati i luoghi iconici, sacri per il suicidio, la domanda viene rivolta ai tecnici: che cosa possiamo fare?
In linea con gli interventi precedenti la risposta risiede nell’intervento preventivo e nella dimostrazione effettiva dell’efficacia di tale intervento.
In primo luogo risulta necessario promuovere un responsible media reporting, con gli elementi peculiari che Amadori e Testoni hanno messo in luce negli interventi precedenti.
Le linee guida per i media hanno dimostrato come l’interesse pubblico sia focalizzato su come viene presentata la notizia, da qui la necessità di ridurre i dettagli sul metodo e il luogo della morte, promuovendo in alternativa una lettura del fenomeno nella sua complessità.
In Slovenia la stipulazione di tali linee guida ha prodotto risultati promettenti in ambito di prevenzione.
Secondariamente risulta necessaria un’attenta valutazione dei rischi: comunicare il suicidio di figure pubbliche, riportare le interviste dei sopravvissuti, il rischio di emulazione derivato dal social learning, inteso come possibilità che le persone imparino da quello che leggono.
Risulta dunque necessario parlare di suicidio non per normalizzare il fenomeno nel pensare collettivo ma per offrire informazioni e soluzioni pratiche in caso di rischio: indicare come e dove ottenere aiuto, utilizzo delle chat safe.
In questo termini, dal momento che la ricerca scientifica ha dimostrato quanto sia incisivo l’impatto dei media su tale fenomeno, risulta necessario utilizzare il potenziale mediatico come possibilità di aiuto.
Chiusura dei lavori
Relatore: Marco Sarchiapone
S. riporta come il rapporto tra spesa e risultati, in tale ambito, risulti essere sempre più basso rispetto alla prevenzione di altre malattie, motivo per cui diviene difficile trovare i finanziamenti e attuare progetti in ambito di suicidio.
Un altro elemento riguarda il significato e il peso della comunicazione: sulle tracce degli interventi precedenti viene messo in luce come l’attenzione oggi venga spostata sul fenomeno, da qui sorgono numerosi spunti di riflessione: qual è lo scopo dell’informazione?
Cosa significa dire il vero e quale verità?
A fianco di questi interrogativi risulta necessario convogliare la responsabilità di chi comunica e di chi riceve, nel rispetto etico e deontologico di linee guida condivise. Tale aspetto risulta ancor più necessario innanzi le trasformazioni dell’epoca attuale, dove il cielo un tempo sopra di noi, oggi si collochi intorno a noi, dove la realtà virtuale entra a far parte della realtà condivisa.
Discussione
Interviene Testoni: ritorna l’importanza della competenza come aspetto centrale.
Il giornalista deve possedere un punto di vista consapevole di se stesso e deve essere competente sul suicidio. La notizia ha la funzione di allertare ed è finalizzata alla promozione del benessere. L’elaborazione esistenziale competente risulta necessaria perché, nello scarto tra il competente e il sensazionalista, vengono veicolati i significanti che possono rispondere alla domanda di aiuto o corromperla.
Interviene Pagnini: ciò che propone la filosofia è una riflessione sull’educazione e sull’impostazione educativa. Per parlare di scienze è necessario un pensiero filosofico. L’effetto Papageno può risultare una prospettiva interessante di lavoro, nei termini in cui analizziamo le modalità in cui diamo le speranze, calcoliamo il rischio nella nostra società e ci interroghiamo sulla scuola e sull’educazione.
IL SUICIDIO IN AMBIENTI CUSTODIALI
Il suicidio in carcere: una prospettiva internazionale
Relatore: Marco Sarchiapone
S. attraverso l’elaborazione dei dati ISTAT segnala una discesa del trend di suicidi in ambiente carcerario in Italia negli ultimi vent’anni.
Attraverso numerosi studi in ambienti custodiali è possibile affermare come nel fenomeno del suicidio siano coinvolti tre gruppi di fattori: biologici, ad esempio la genetica; sociali, ovvero come asse in grado di indicare dove la società si stia dirigendo; psicologici, intesi come fattori cuscinetto, poiché in essi risiede l’unica potenzialità dell’individuo nel poterli modificare.
Il modello stress-diatesi mette in luce come dallo scarto tra fattori di rischio e fattori di protezione si estenda la soglia suicidaria.
I fattori di rischio sono riassumibili in due macro categorie: fattori di rischio predisponenti e fattori di rischio potenzianti o prossimali.
I primi riguardano gli aspetti neurobiologici, la storia familiare di suicidio, l’uso di sostanze, la presenza di disturbi psichiatrici e/o di traumi infantili, alti livelli di impulsività e di aggressività.
La seconda categoria riguarda invece la disponibilità del mezzo, il lutto, la presenza di malattie fisiche o di eventi di vita traumatici, alti livelli di stress e fasi acute di disturbi psichiatrici.
I fattori protettivi vengono messi in relazione ad: aspetti specifici dello stile cognitivo e della struttura di personalità, ovvero il valore personale, la fiducia in se stessi, la capacità di cercare aiuto e di chiedere consiglio, l’apertura alle esperienze degli altri, il desiderio di imparare; agli aspetti che riguardano il supporto familiare; e a fattori ambientali come la presenza di luce solare, l’esercizio fisico, il regolare ritmo del sonno e una corretta alimentazione.
In base alla valutazione dei fattori di rischio è possibile individuare i così detti gruppi a rischio: un esempio lampante riguarda i detenuti, dove vengono riscontrati alti tassi di suicidio completo, tentativi di suicidio e ideazione suicidaria.
La ricerca scientifica ha dimostrato come negli ambienti custodiali il rischio di suicidio risulta da 9 a 14 volte superiore rispetto la popolazione normale; per coloro che si trovano in attesa di giudizio da 6 a 7,5 volte superiore rispetto alla popolazione normale; e durante le prime due settimane di reclusione e nei giorni immediatamente successivi al rilascio, il rischio risulta essere di 12 volte superiore alla popolazione normale.
L’alta prevalenza di tale fenomeno è il risultato di un’interazione tra due fenomeni: la vulnerabilità del detenuto, ovvero le caratteristiche demografiche ed eventuali patologie psichiatriche, e l’ambiente carcerario, in termini di fattori stressanti istituzionali cronici e fattori stressanti psicosociali acuti.
Le caratteristiche demografiche riportano la preponderanza del sesso maschile, nonostante le donne riportino tassi più alti di tentativi suicidari, età giovane sotto i 21 anni, non coniugati e con una condanna lunga. A livello etnografico risultano maggiormente coinvolti i soggetti caucasici.
La presenza di una patologia psichiatrica risulta essere un ulteriore aspetto caratterizzante: il malato tende ad essere recluso più facilmente, i dati riportano come dal 33% al 95% dei deceduti era in possesso di diagnosi di una malattia psichiatrica. Inoltre è stato dimostrato come la stessa diagnosi psichiatrica risulti essere fattore di rischio 6 volte maggiore. Infine il 90% di coloro che commettono suicidio hanno riportato problemi di abuso di sostanze, mentre l’abuso di alcool nello specifico aumenta di 3 volte il rischio di suicidio.
Per quanto riguarda l’ambiente carcerario vengono ritenuti fattori stressanti cronici la perdita dello stato sociale, i sentimenti di colpa e di vergogna, la separazione dal coniuge e dalla famiglia, la costrizione a vivere in ambienti sgraditi, la coercizione sessuale, i conflitti interpersonali, le patologie mediche croniche, il sovraffollamento, l’isolamento e lo specifico assetto degli ospedali psichiatrici giudiziari.
Mentre i fattori stressanti psicosociali acuti riguardano la richiesta di separazione da parte del coniuge dopo la comunicazione della condanna definitiva, la ridicolizzazione, la vittimizzazione, l’abuso e la violenza sessuale, la condanna per reati infamanti.
Tali fattori risultano svolgere il così detto ruolo grilletto o trigger, dalle 24 a alle 72 ore successive a questi eventi.
In linea generale i primi trenta giorni risultano essere i più critici, motivo per cui non bisogna mai perdere l’attenzione sulla persona. In Italia, a settembre 2018, su 92 decessi in ambienti custodiali 42 hanno riportato come causa di morte il suicidio, mentre i tassi di tentativo di suicidio risultano maggiori al suicidio completo.
Tra il 2005 e il 2008 è stato effettuato uno studio nelle carceri secondariali di Abruzzo, Calabria, Campania e Molise. Tale studio ha prelevato materiale ematico e tamponi salivari ed è stato standardizzato attraverso una raccolta dati con strumenti psicometrici. Il protocollo di studio si è focalizzato sulle condotte impulsive e autolesive negli istituti di pena ed ha raccolta la partecipazione di più di 1400 detenuti.
I risultati hanno riportato una maggiore frequenza di storia di disturbi psichiatrici, abuso di sostanze, storia familiare di suicidio, crimini violenti, aggressioni in carceri, storia di aggressività, traumi infantili, sintomi depressivi, tratti di psicoticismo, nevroticismo e introversione e bassa resilienza. Di questo campione di soggetti 130 avevano tentato il suicidio.
Per stimare il livello di aggressività e di violenza è stato utilizzato un test specifico ed è stata valutata la motivazione per cui la persona è stata arrestata.
Un dato interessante ha riportato che coloro, nel cui diario di reclusione erano stati segnalati come elementi disturbanti o coinvolti in risse e aggressioni, correlavano positivamente come portatori di una particolare anomalia genetica, intesa come predisposizione.
Ulteriori fattori riguardavano la presenza di disturbi di personalità, di trauma infantile, insonnia e alti livelli di impulsività.
Nello specifico caso degli ambienti custodiali l’OMS richiede delle linee guida per la prevenzione del suicidio: in particolare, la formazione del personale, l’attenzione al clima sociale, la presenza di strategie atte alla riduzione della violenza, screening sistematici soprattutto a livello psichiatrico dei primi giunti, promozione della comunicazione interna allo staff e con le diverse istituzioni.
In Italia nel 2012 è stato preso un accordo per sottoscrivere le linee guida per la prevenzione in ambienti custodiali, mettendo in luce la necessità di far confluire le iniziative locali in un piano nazionale di intervento, al fine di: individuare le criticità, promuovere una rilevazione sistematica dei rischi, attuare presidi in circostanza di situazioni stressanti, evitare il burn out, ampliare il lavoro a livello multidisciplinare, gestire i casi a rischio attraverso l’uso di protocolli e una specifica formazione per i futuri operatori.
In conclusione, se da un lato non è possibile predire l’accadimento suicidario nei detenuti ad alto rischio, tuttavia è possibile ridurre le condotte suicidarie attraverso l’implementazione di programmi di prevenzione.
Il suicidio nelle carceri italiane
Relatore: Giulio Castelpietra
C. introduce da un punto di vista epidemiologico il tema del suicidio nelle carceri italiane.
Nonostante il numero di suicidi dal 1992 al 2016 risulti diminuito, tuttavia emergono nuovi fattori di rischio che necessitano particolare attenzione: il problema del sovraffollamento, l’aumento dei tentati suicidi (10 volte superiore ai suicidi conclamati) e delle condotte autolesionistiche, l’assetto normativo dei regimi di massima sicurezza che riportano tassi suicidari più elevati rispetto all’isolamento temporaneo.
Nel Triveneto è stato effettuato uno studio osservazionale in 16 carceri con giacenza media di tremila detenuti. I risultati, in linea con i dati nazionali, riportano tassi suicidari elevati nei soggetti di sesso maschile, tra i 21 e i 40 anni, di cui il 30% risultano di nazionalità italiana.
In particolare il 14% dei suicidi e il 19% dei tentati suicidi riportavano un passato di tentati suicidi e di condotte autolesive, affiancate da un tasso più elevato di crimini violenti. Un dato interessante ha dimostrato come i collaboratori di giustizia risultino essere uno dei gruppi maggiormente a rischio.
Lo studio, in conclusione, ha messo in evidenza il bisogno di politiche di prevenzione del suicidio, di valutazione dell’efficacia dei piani di prevenzione e dei rischi di suicidio in gruppi specifici di persone.
Per quanto riguarda lo specifico della realtà regionale del Friuli-Venezia Giulia, è stato recentemente approvato un piano regionale per le condotte suicidarie e i gesti autolesivi in carcere e delle specifiche indicazioni per i piani locali: nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo l’implementazione di tali linee di prevenzione ha permesso di registrare un decremento sostanziale dei tassi di autolesionismo.
Un punto centrale di tali linee guida riguarda la fase di monitoraggio che, da un punto di vista metodologico, prevedono la distinzione, di coloro che si occupano di prevenzione, in tre gruppi: il sostegno sanitario, il sostegno da parte del personale penitenziario e il sostegno “atecnico” o non professionale, ad esempio i compagni di detenzione o i volontari.
Il focus viene incentrato su tre ordini di fattori: la rilevazione del rischio, il presidio nelle situazioni stressanti e il lavoro integrato e multidisciplinare.
Per quanto riguarda la rilevazione del rischio, risulta importante porre attenzione alla fase di ingresso del detenuto e ai cambiamenti delle condizioni di detenzione, che possono provocare nelle immediate 24 ore sintomi di disagio. In questi casi è fondamentale il concorso tra personale sanitario e penitenziario, perché grazie alla collaborazione delle parti, diviene possibile intercettare l’ideazione suicidaria.
Il presidio delle situazioni stressanti, quali l’ingresso nel carcere, il colloquio con i familiari, patologie psichiche e/o somatiche, i processi e le notifiche legali, le udienze e i giorni successivi alla condanna, risultano fondamentali per recepire il disagio della persona e comunicarlo al personale competente.
In tal senso in primo piano deve essere valutata la formazione degli operatori e la loro capacità nel captare segnali di crisi. Anche il colloquio con i legali, i magistrati e i familiari possono essere utili per recepire le situazioni di disagio.
Un altro evento stressante è costituito dalla re-immissione in società, tale per cui risulta importante un buon contatto con gli uffici di esecuzione penale esterna.
Infine viene messa in luce l’importanza del lavoro multidisciplinare, ovvero l’integrazione tra le figure sanitarie e penitenziare perché provvedano a una presa in carico congiunta e coordinata, al fine di permettere la segnalazione di fattori di rischio, la convocazione di riunione di equipe ed eventuali azioni di tutela.
Ad esempio, quando un detenuto viene considerato a rischio, viene privilegiata la cella multipla, viene evitato il possesso di oggetti a rischio, spiegando le motivazioni per cui tali oggetti vengono tolti e sensibilizzando i compagni di cella.
In conclusione, in via sperimentale, si è pensato come intervento di supporto la formazione di peers supporters, ovvero la specifica formazione di compagni detenuti, al fine di creare un’ulteriore rete di supporto. Per ogni piano preventivo viene ribadita l’importanza del monitoraggio permanente, di attività post facto e di debriefing, ovvero attività di sostegno e riabilitazione congiunta ai detenuti che hanno assistito all’evento suicidario.
Il suicidio nelle residenze protette
Relatore: Corrado Carabellese
Nelle residenze protette il fenomeno del suicidio viene individuato e affrontato su due piani metodologici interconnessi: il piano individuale e il piano di assistenza individuale, in cui si tiene conto anche degli aspetti specifici organizzativi, ad esempio l’igiene personale.
La ricerca scientifica ha dimostrato come il suicidio nella popolazione anziana aumenti con l’età, tuttavia nelle strutture protette i tassi risultano inferiori per la tipologia degli ospiti e per l’organizzazione della struttura. Nelle case di riposo l’incidenza risulta uguale, pur differenziandosi la tipologia di residenza: metropolitana o periferica, piccola o grande, cattolica o pubblica.
Il suicidio risulta correlato maggiormente ad aspetti specifici interni alla struttura: fattori ambientali (ad esempio la misura del letto), variazioni improvvise del personale o della routine giornaliera dell’anziano ect.
Nonostante all’interno della casa di riposo vi sia un continuo contatto tra l’anziano e la famiglia, gli altri ospiti della struttura e gli operatori, configurandosi come luogo potenzialmente adatto per sviluppare rapporti sociali e uno stile di vita compatibile con le proprie esigenze, l’ingresso in casa di riposo viene percepito dalla persona come evento negativo.
L’ideazione suicidaria risulta essere il problema più rilevante all’interno delle residenze protette: i dati riportano come il comportamento suicidario sia presente al 50%, mentre l’ideazione suicidaria nel mese precedente sia del 33%. Uno studio scientifico ha dimostrato come dall’ideazione suicidaria emergano gli elementi degli atti suicidari completi che si sviluppano durante il primo anno di degenza.
Risulta necessario indagare, anche con i familiari, gli aspetti passivi delle ideazioni suicidarie, ovvero gli elementi di personalità e della storia del paziente, e gli aspetti attivi, intesa come erosione suicidaria, ad esempio il rifiuto della cura e del cibo, il blocco nella comunicazione con i familiari e/o gli operatori.
In linea generica il fenomeno del suicidio nelle case di riposo coinvolge soggetti che nel 50% dei casi possiedono diagnosi di depressione, problemi fisici, psicologici e/o psichiatrici. Risulta maggiormente prevalente nel sesso maschile, in concomitanza con abuso di sostanze, perdita di un coniuge, precedenti tentativi di suicidio, deterioramento dello stato di salute, dolore, perdita del sonno e compromissioni funzionali.
Un altro ordine di fattori rischio, che spesso si associano all’idea suicidaria, riguarda la tipologia della struttura e le sue “regole”, la perdita delle amicizie, l’umore depresso, l’impotenza. Inoltre i dati scientifici riportano come il numero di farmaci prescritti correli positivamente con la capacità suicidaria, così come il turn over dello staff si associ a un cambiamento del tono dell’umore in termini peggiorativi.
In tal senso risulta fondamentale la formazione competente degli operatori, che devono essere in grado di riconoscere l’attività di ideazione suicidaria. Nello specifico sono state individuate alcune caratteristiche da porre sotto osservazione: il pensionamento, le perdite,i fattori biologici, l’isolamento sociale, il bisogno di arrestare il flusso di coscienza a fronte di una sofferenza.
A livello metodologico viene consigliata una valutazione multidimensionale all’ingresso e periodicamente. È necessario inoltre garantire una giusta idoneità ambientale, una corretta formazione degli operatori e una stesura competente dei profili assistenziali per i pazienti.
Il colloquio clinico diviene uno strumento importante per identificare le condizioni di rischio di protezione in relazione al suicidio e all’ideazione suicidaria; per tale motivo durante il colloquio basta porgere anche semplici domande per comprendere l’emotività dell’anziano: come si sente, che progetti ha quando esce dall’ospedale, se c’è qualcosa che lo preoccupa.
Bisogna inoltre porre attenzione ai segnali di avvertimento del rischio: il soggetto appare triste, presenta variazioni del tono dell’umore, sentimenti sproporzionati di colpa o vergogna, perdita di interesse per il cibo, pensieri di morte, regalo di oggetti significativi, pone l’etichetta sulle proprie cose, fa testamento, aumenta l’uso di sigarette o di alcool, ha visitato dei parenti come per dire “addio”.
Attivare un’adeguata valutazione del rischio di suicidio permette agli operatori di modificarela propria elasticità mentale e lavorativa. Se ad esempio un paziente manifesta il desiderio di camminare, nonostante si trovi nelle condizioni di alto rischio di frattura, risulta fondamentale per l’operatore comprendere come la valutazione psicofisica della persona debba contemplare un giusto equilibrio fra autodeterminazione e stato di salute, poiché tale fattore può divenire determinante per la formazione di idee suicidarie o esordio di depressione.
Sulla base di tali premesse diviene fondamentale gestire l’anziano attraverso colloqui periodici con il medico di riferimento, possibilmente accompagnati da impressioni, valutazioni e percezioni dello stato di salute del paziente da parte dei familiari. In tali colloqui è necessario che emergano le risorse, i fattori protettivi e la valutazione di eventuali cambiamenti nel modus vivendi dell’anziano, come possibili campanelli di allarme.
La valutazione del piano di assistenza individuale prevede invece l’incontro con l’equipe, la famiglia e l’ospite e gruppi di incontro con lo psicologo. Spesso gli operatori assistenziali tendono a derogare qualsiasi azione di gestione del rischio a causa della forte responsabilità a cui sono sottoposti, motivo per cui questi momenti di incontro risultano fondamentali per ottenere un quadro completo dell’anziano a livello individuale e in relazione all’inserimento e alle dinamiche interne alla struttura.
Bisogna inoltre tener conto della fase di accoglienza, intesa come passaggio delicato che richiede attenzione nella modulazione, l’orario delle visite e la partecipazione alla vita della residenza.
L’attenzione alla persona riguarda anche e soprattutto gli aspetti pratici del vivere quotidiano: tenere i pazienti fuori dal letto, abituarli ad utilizzare un abbigliamento giornaliero.
La cura degli ambienti risulta essere uno degli aspetti in grado di modulare il rischio dell’idea suicidaria, ad esempio l’attenzione alla camera di degenza, gli spazi comuni, i giardini, la biblioteca, il bar, la sala di lettura, le terrazze, la cappella e il servizio religioso, la palestra per le attività motorie e riabilitative. È stato dimostrato come la presenza di un obiettivo, di un programma di attività sia correlato negativamente con l’ideazione suicidaria.
Tali aspetti rappresentano elementi di contatto tra l’anziano e la struttura, così come ilcolloquio con l’educatore, i programmi di socializzazione e la musicoterapia.
Ciò che conta è costruire insieme al paziente un’ipotesi di vita, cercare di identificare nelle pieghe dell’esistenza di ognuno gli spazi, quell’attaccarsi per trovare un senso.
Il suicidio in ospedale
Relatore: Diego De Leo
In ambiente ospedaliero, vista la massima sorveglianza, bisognerebbe ottenere risultati migliori in termini di prevenzione e condotte suicidarie; tuttavia i dati dell’ISTAT mostrano come il suicidio in ospedale sia una pratica largamente diffusa. Da un lato vengono registrati casi di suicidio di persone che si recano in ospedale per suicidarsi, ad esempio nella tromba delle scale, dall’altro l’atto suicidario viene compiuto dagli stessi pazienti e prende il nome di evento sentinella.
Spesso la sfida emotiva che comporta trattare, indagare e individuare soggetti potenzialmente a rischio conduce la pratica medica ad arrestarsi alla valutazione sistematica dei sintomi, pratica estremamente complicata quando si parla di suicidio, dal momento che non si configura nei termini di una malattia diagnosticabile.
La necessità di aumentare il livello di controllo da parte degli operatori spesso entra in collisione con l’ansietà degli stessi operatori di incorrere in denunce legali o minacce di contenzioso, motivo per cui spesso il paziente viene trattato in maniera difensivistica.
Tuttavia è fondamentale tenere a mente che non si è mai nella posizione di escludere un intento suicidario, anche in assenza di intenzioni suicidarie segnalate.
Dal momento che la prevenzione del suicidio risulta basata sull’idea di crisi suicidaria e che il fenomeno del suicidio si estende oltre gli aspetti psichiatrici o psicopatologici dell’esperienza umana, è fondamentale che il personale si mostri attento, competente e disponibile, in grado di individuare e valutare periodicamente il rischio di ideazione suicidaria e di comportamento autolesionistico.
Nelle strutture ospedaliere è necessaria un’analisi attenta dei fattori di rischio inerenti alla tipologia della struttura: se il paziente viene ricoverato in ambiente psichiatrico, soprattutto per il primo ricovero in psichiatria, il rischio aumenta da 10 a 220 volte rispetto la popolazione generale. Se per il medico si tratta di una garanzia difensivistica, per il paziente risulta essere un rischio enorme.
Risulta necessario monitorare i primi giorni di ingresso e quelli successivi alle dimissioni, ad esempio il paziente può mostrarsi più tranquillo per ottenere le dimissioni, perché ha già deciso di suicidarsi; tenere in conto gli elementi inadeguati dell’ambiente ospedaliero e il problema dello stigma.
Il suicidio può avvenire con diverse modalità: quando vengono date delle licenze, nei passaggi tra i reparti, in attesa di un esame specialistico, in mancanza di personale, per appropriamento di farmaci.
Altre tare riguardano la comunicazione insufficiente tra lo staff, la presenza di doppia diagnosi, l’introduzione di un nuovo trattamento antidepressivo con effetto eccitatorio. Oltre la mancata formazione su tali problematiche e un deficit nella supervisione, bisogna considerare la condizione di emergenza in cui spesso operano gli addetti ai lavori; per tali motivazioni è importante trovare il tempo per conoscere e indagare una storia collaterale, da parte di chi conosce bene il paziente.
Per quanto riguarda gli strumenti di valutazione è stato dimostrato come le scale di valutazione del suicidio risultino inefficienti. Esiste la possibilità che in futuro, sulla base dei big data, sarà possibile formulare degli algoritmi con risultati attendibili; attualmente non è possibile fare affidamento alle scale come unico strumento. Le BPRS possono aiutare per la valutazione dell’ideazione suicidaria, la scala di Pierce per i tentativi di suicidio ma in linea generale è stato dimostrato come le scale di valutazione per il suicidio generino troppi falsi negativi e falsi positivi.
Il paziente risulta essere un valutatore attendibile del proprio rischio al pari del medico; per tale motivo la valutazione clinica e l’alleanza terapeutica stabilita con il paziente restano gli strumenti più validi. Risulta necessario individuare una linea guida efficace: la Hamilton Rating Scale e la Beck sono in grado di individuare nei pazienti depressi maggiori una convergenza del solo 8%.
Non a caso le NAILS inglesi indicano di non tenere conto delle scale ma di valutare i bisogni dei pazienti e di fare una lista di quelli mancanti. Gli americani incoraggiano invece lo sviluppo e il monitoraggio dello screening del paziente.
Lo STARS nasce come idea diversa: si tratta di un approccio centrato sul paziente nella forma di un’intervista guidata.
Tale tipologia di strumento viene affiancata a un training, una guida su come effettuare l’intervista, esaminando la passata suicidalità, i fattori di rischio e quelli protettivi, il livello di rischio espresso dal paziente e dal medico. Al termine di ogni incontro entrambi i partecipanti firmano la documentazione prodotta; si va così a costituire un diario di bordo che permette di effettuare un lavoro di squadra, in grado di superare un momento di crisi individuale.
In conclusione, è importante ricordare che solo attraverso la comprensione di ciò che il paziente si aspetta da noi è possibile fare di un bisogno un incontro, che l’immaginazione affettiva nei confronti della persona ci mette nella posizione di dedicare disponibilità e umanità al paziente, poiché si tratta di curare un’esistenza e non di trattare una malattia